Segue lettera di Aldo Flora,
trovata da Giorgio de Benedictis stamattina, 15 marzo 2010, sul suo cuscino.
Salve ragazzi!
Sono Aldo, sì, proprio io, Aldo Flora.
Mi faccio sentire dopo un pò di tempo, perché avevo bisogno di sistemarmi quassù, cosa che credevo più facile del previsto.
Ci arrivai subito e, come fanno tutti quando traslocano, cercai subito casa.
Avevo saputo, dalla lettera che Gigi Conti aveva lasciato sul cuscino di Giorgio, che la casa di tutti noi, qui tra le nuvole, era in Via dell’Eternità.
Avevo saputo della stella che segnava il suo numero civico e, quindi, pensavo che fosse facilissimo trovarla. E, invece, ho dovuto girovagare per un po’ di tempo.
Per strada, avevo incontrato Giuseppe Ardito, arrivato prima, al quale, come a me, tutta la conoscenza della topografia non era servita a niente. Cercava la casa anche lui. Allora l’abbiamo cercata insieme e, finalmente, è finito il nostro peregrinare.
Era vero. La stella, al lato del portone, era la più luminosa del firmamento. Gigi aveva detto che il buon Dio, per onorare le nostre fatiche per la conquista della prima stelletta,
aveva preso la più bella e l’aveva fatta attaccare a destra dello stipite.
Il fatto è che quel giorno, lungo Via dell’Eternità, c’era un via vai di nuvole: beninteso, non la vostra nebbia, perché qui è tutto chiaro e luminoso, ma era un rincorrersi allegro di immense matasse di ovatta, che rendevano difficile orientarsi e trovare la stella.
Siamo entrati e abbiamo trovato tanti altri fratelli, in ordine sparso, a fare baldoria. Tutti riconoscibilissimi: Spinella con la pronta battuta di sempre, Gigi a far capriole, Costantini sempre accigliato, Bifulco con il solito aplomb da gran signore, Malausa con ancora sulla fronte la fiamma del carabiniere, Novelli con colori e pennello e così via.
È stata anche per loro una sorpresa. Non ci aspettavano così presto. Ma sapete com’è: in alcune cose è un Altro a comandare e, quando ordina, c’è poco tempo per riflettere.
Avevo già avuto un segnale tempo fa, e avevo capito che stava giungendo l’ora di muovermi, di “andare avanti”, come dite voi.
Al momento stabilito sono dovuto andare via.
Ma, sapete, passato il primo istante di scoramento, mi sono caricato sulle spalle il dispiacere, così come al campo d’arma mi caricavo il treppiede della Breda 37, e sono partito.
Ora eccomi qua. Ho preso dimestichezza con il luogo e mi sono organizzato per avere la giornata piena.
Mi sveglio presto e guardo l’alba. Voi non potete sapere che cosa questo voglia dire. Non è la vostra alba, no: questa é una sinfonia di pastelli, resa preziosa da cromatismi iridescenti, soffusi, delicatissimi. Mi alzo presto, perché lo spettacolo è diverso ogni giorno e non voglio perderne uno.
Quando poi sorge il sole, andiamo a colazione; ma non quella che pensate. Qui non abbiamo da dividerci il caffellatte, il burro e la confettura di modenese memoria. Qui ci scambiamo e ci dividiamo i ricordi. Oh, non dura molto, sono gli stessi antichi dieci minuti, ma bastano e ci fanno felici.
Il resto della giornata scorre rapidamente, tra addestramento formale senza armi (che qui sono proibite come dovrebbero esserlo altrove), capriole, lucidatura della stella e la specialità, ancora non olimpica del “salto della nuvola”.
Tutto questo in attesa della sera, quando si accendono, una dopo l’altra, tutte le luci.
Come disse Gigi, qui disponiamo di un ‹‹palco d’eccezione››, fatto per privilegiati, eletti tali da Chi ci guarda, a sigillo, premio e conferma delle antiche rinunce e delle antiche fatiche. Prendiamo posto al tramonto, ci sistemiamo e stiamo in silenzio. Tutti. Anche Spinella. E sappiamo quanto gli costi!
Ed ha inizio la nuova quotidiana versione della maestria del Creatore.
Il tramonto, quassù, è un’orchestra di luci, nella quale suonano la loro musica colori che non avevamo mai visto e che non sapevamo che esistessero. E’ il nostro salario quotidiano, non più pagato a decadi, ma elargito con generosità magnifica. Dura circa due ore, per lasciare poi il posto alle aurore boreali, la cui anticipazione ci era stata data da Gigi, il primo ad avercene parlato e, con altri, ad averle godute.
Se, partendo, ho lasciato sulla terra il mio cuore nelle mani di chi mi ha amato, quel vuoto residuo mi viene colmato ogni sera e sono felice.
Ma ciò che non sapete è quello che avviene quando si è fatta notte fonda. È da quel momento che posso, che possiamo, tornare sulla terra da voi. Soltanto nel sogno. E nel sogno, nel sogno di chi mi ha amato e mi ama, dico tutto ciò che voglio dire: della mia nostalgia, del mio tutto lasciato incompiuto, delle mie speranze che la partenza ha mutilato, di quelle mani che strinsi troppo poco, delle mie eterne bambine, sempre così affettuose, sollecite, amorevoli. Vero, Alessandra? Vero Veronica?
Torno a visitare i luoghi delle gioie e dei tormenti, a rivedere l’austera e severa bellezza del palazzo di Sassuolo, a risentire l’odore d’erba di Pievepelago, a risentire il rumore dei tacchi sui sampietrini del cortile d’onore. Posso anche riassaporare il profumo della mia casa. Ma solo per poco.
Prima dell’alba devo ritornare tra le nuvole, sia perché è obbligatorio, sia per lo spettacolo dell’alba che non voglio perdere.
Questo volevo dirvi. E ve lo dico con questa lettera che non potrò spedirvi, perché qui non è operante un servizio postale. Ma farò come mi ha detto Gigi Conti. Andrò stanotte da Giorgio e la lascerò sul suo cuscino. Perché da Giorgio? Perché in Accademia era il mio compagno di banco, in quelle lunghe ore in cui studiavamo ciò che non ci sarebbe mai servito. Giorgio lo aveva capito subito: invece di rompersi l’anima sul “teorema di Potenot”, sull’“integrale ellittico” e sull’“accelerazione di Coriolis”, impiegava tutto il tempo a scrivere interminabili lettere, nelle quali fondeva insieme il suo amore e la sua rabbia, la sua pulizia di cuore e la sua brama di lealtà.
Era mio fratello, come io lo ero di lui.
Andrò da lui stanotte, gli lascerò sul cuscino questa lettera e gli andrò in sogno, sì che io possa dirglielo anche con la voce.
A voi posso dare un consiglio: rimanete dove siete e, se possibile, fino alla fine dei secoli. La strada per arrivare Quassù è facile, ma è meglio non percorrerla.
Ricordatemi e non preoccupatevi per me.
Io sono felice, perché ogni istante la mia Mirella continua a parlarmi d’amore.