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A volte, quando uno sente parlare di carabinieri, o di giornalisti, o di magistrati, diventa, per così dire, allergico. Spera di non essere mai arrestato da quel carabiniere, mai interrogato da quel giudice e che mai quel giornalista venga a conoscere la sua storia. Inutile dire che in queste e altre categorie professionali i "buoni" superano largamente i "cattivi", ma leggendo i libri del Generale Gaetano Calcagnile si ha l'impressione che, se per caso siamo innocenti, se per caso la nostra era una marachella ed è stata scambiata per un reato, sarebbe meglio avere a che fare con uno come lui.
È un Generale con qualcosa del maresciallo e, non a caso, spesso nei suoi racconti, nei suoi ricordi, nelle sue storie esemplari, parla di sottufficiali, di quelli che sono "su strada". Personaggi un po' come il maresciallo di carta Pietro Binda, che l'anarchico Pietro Valpreda ha creato insieme a me come se fosse una speranza: la speranza che ogni innocente ne incontri uno così in carne e ossa, che sappia ascoltare e che non giudichi prima.
Il Generale sa anche pescare, dalla vita delle caserme, quei dettagli che manderebbero in visibilio i tanto spesso asfittici sceneggiatori dei serial tv.
La bara nuova trovata nel magazzino, l'Ufo scomparso ma in realtà fatto sparire dal figlio piccolo del maresciallo che l'ha preso per un giocattolo, il telegramma dall'umorismo involontario di un brigadiere in Sardegna («Si assicura che da quando il signor capitano comandante della compagnia è uscito dalla Stazione non ci sono stati più maiali in questa caserma»), rappresentano elementi sui quali costruire quello che tante volte manca alla tv: le scene nate nella realtà e, poi, con il passaparola, diventate quasi miti.
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