Gli Alpini della Greggia.
Racconto di Ruggero Contini (Roger)
1. L'Antefatto: duro per chi non ha fatto il militare.
La Greggia era, nel detto montagnino, la salmeria e cioè quella parte di un reparto alpino anomala nella sua composizione organica perché comprende oltre agli uomini (i conducenti) anche gli animali, per la più parte muli e mule, ma anche cavallini aveglinesi, e tutti quei materiali ad essi pertinenti.
Era un mondo molto complesso regolato da norme non scritte, con gerarchie rigide e proprie basate su scale di valori essenziali nei quali la tradizione alpina allogena è la componente base. Un buon capitano la osserva, la usa oculatamente, ne valorizza e ne conserva l’indipendenza…e non interferisce. Non è una rinuncia al suo potere: è una questione di logica funzionale.
Tuttavia egli ha un dovere primario: deve tenere lontano dal suo tesoro i subalterni comandanti di plotone alpini, veri rompicoglioni della Greggia, col loro formalismo tanto grezzo e irrispettoso della legge non scritta quanto ansioso di riportare il tutto sotto il tetto sicuro del Regolamento di Disciplina. Il capitano ha tanti doveri e compiti; ma il dominio che la Greggia gli riconosce, unico fra gli Ufficiali, gli impone una vigilanza padronale, attenta e rispettosa dei comuni possedimenti.
2. Personaggi 1 e 2: il Capitano Fagiano e il Tenente Picchetto, il problema misterioso, anatomia di un rapporto.
Il Fagiano era uno di quei giovani/vecchi capitani che sapeva tutto su come si governa una greggia e non voleva perdere la faccia per risolvere un problema misterioso che coinvolgeva la greggia, il cane Valgallino, il Veterinario, e misteriose file di conducenti alle sei del pomeriggio nei pressi del locale salmerie del reparto.
Gli serviva un relatore credibile: il tenente Picchetto venne perciò avvicinato informalmente al circolo ufficiali dopo essere smontato da ufficiale di picchetto appunto, occupazione prevalente del tenente, data la scarsità di subalterni della caserma.
Picchetto aveva quelle caratteristiche che Fagiano ricercava: giovanissimo, magro, firmaiolo fanatico, insaziabilmente curioso, osservatore, con quella dote di indipendente giudizio che lo portava ad emettere parole di fulminante critica su comportamenti stupidi e autoritari emessi da superiori in (momentaneo) stato di leggerezza mentale. Un sicuro fallimento nella sua progressione di carriera: ma affidabile ed efficiente nell’ espletamento dei suoi incarichi quanto un panzer in combattimento.
Il rapporto fra Fagiano e Picchetto era basato, oltre che sulla gerarchia diretta, anche dalla comune passione per il tiro a segno e per la stima reciproca. Entrambi tiratori di carabina, Fagiano aveva salvato Picchetto da una brutta grana di caccia di frodo e l’aveva fatto in un modo che se Fagiano avesse voluto Picchetto nel pozzo quello sarebbe stata la sua felice residenza a vita, con la sua cassetta d’ordinanza e la sua carabina. Ma questa è un’altra storia che, coinvolgendo la caora, merita un chiarimento.
3. Il rapporto fra i due
I fatti risalgono a quando Picchetto, appena giunto al reparto, fù incaricato dell’ addestramento al tiro col fucile Garand 30/06 dei mortaisti e degli specializzati al tiro dei mortai della compagnia. Picchetto prendeva tutto molto sul serio e quindi aveva ben preparato gli Alpini all’evento, dignità e sostanza era il suo motto; ma i risultati non erano all’altezza delle sue aspettative.
Tranne qualche raro caso le padelle si alternavano alle padelle, i bersagli si mantenevano vergini, gli “zappatori” e cioè gli alpini addetti ai bersagli, sventolavano malinconicamente a pendolo le loro palette bianche. Picchetto era nervoso, tutto il suo impegno non era servito a molto, Fagiano era ammutolito ed anche il capo ufficio Addestramento, il Ten.Col. Detto Rossore, presente col suo drappello di tiratori scelti del Reggimento, non contribuiva alla sua serenità.
Le battutelle dei cecchini (i tiratori scelti, naturalmente) arrivavano ben chiare, Picchetto era giovane, allora, e i suoi timpani non si erano ancora rotti a causa delle esercitazioni al tiro. Non era colpa dei suoi Alpini, semplicemente l’ addestramento al tiro di una compagnia mortai era stato curato più sul tiro dei mortai che quello delle carabine. Ma Picchetto questo non lo accettava. E perciò comandò una sospensione. Voleva ricominciare con un poco di teoria a reparto riunito.
Ma il Diavolo fà le pentole e non i coperchi : i sorrisetti degli snaiper (i cecchini, appunto, sempre loro) furono la goccia.
Picchetto si fece portare il suo Garand.
Si tolse l’elmetto e si mise il cappello alpino girato al contrario in modo che la falda non gli impedisse la mira. Nei cinque minuti successivi, dritto in piedi, come un antico romano che sfidava il nemico a viso aperto fece sventolare più palette rosse di quante ne avesse mai viste il Reggimento nella sua storia e poiché era incazzato di brutto, fra un turbinio di bossoli e caricatori espulsi e scatti scrosci scoppi e fiammate, con gli ultimi colpi spezzò anche i sostegni in legno delle sagome.
Il che era una bella prova di abilità tecnica, dato che tirava sui duecento metri, ed una bella sfida agli snaiper che già pregustavano una bella seduta su bersagli vergini; ma anche un bel danno per i fondi dell’ addestramento reggimentale che aveva finanziato il legno e la tela delle sagome.
Fagiano rimase in silenzio, ma l’occhietto furbo e pensoso divenne più dolce nel guardare Picchetto. Naturalmente lo lasciò fare e poi lo chiamò a sé, vicino al Capo Addestramento e, sottovoce, gli intimò di ritenersi agli arresti semplici e di proseguire nell’addestramento. Fece cenno di non voler gli onori del reparto e toccandosi la rossa barba e stirandosi a torciglione il baffo destro tolse il disturbo.
Ma non era da lui dimenticare che gli onori al Comandante non si rendono sulla linea di tiro. E Picchetto sapeva anche che Fagiano lo sapeva.
3. Il nome segreto, l’orgoglio, il mona e la caora
La Greggia, esclusa dall’ addestramento al tiro; ma presente con una batteria di 40 muli, fece poi sapere a Fagiano che anche i conducenti volevano essere addestrati con le loro Winchester e che avrebbero gradito Picchetto, che fù così ribattezzato Pennastorta ed integrato virtualmente con questo nome segreto nella Greggia a cui insegnò i segreti della Winchester 30/30.
Quattro mesi dopo, in una stretta valle alpina dal fondo ancora innevato, la Greggia, la salmeria appunto, con Pennastorta in coda, avvistò il piccolo di una caora (capra, capriolo o camoscio; cornuto in generale nel linguaggio dell'alpe) sdraiato sulla neve del fondovalle, a 150 metri dal sentiero che il reparto percorreva a mezzacosta. Una staffetta corse da Pennastorta che guardò il tutto: la piccola caora pareva morta. Ne muoiono diversi così in inverno: i piccoli con le loro zampette corte non riescono a liberarsi nella neve alta ed il disgelo li fa ritrovare quasi sdraiati. Ma la staffetta insisteva che era stata vista muoversi. Valle isolata, nessun superiore presente, la situazione sarebbe stata perfetta, ma Pennastorta non era convinto, per di più aveva fretta di arrivare, il tempo stava cambiando. E fece un errore di valutazione. Si tolse la carabina, infilò un solo colpo in canna, alzò pigramente l'arma e fece fuoco più per farla finita che per convinzione. E la caora, svegliata dal suo riposo, con un balzo si inerpicò dileguandosi per il pendio opposto.
Vicino al fuoco, la sera, ridivenne Picchetto, il Signor Tenente che "insegnava a sparare ma non sapeva sparare". Da quel giorno Picchetto girò con un pacchetto di cartucce in tasca. Puoi perdere tutto nella vita, ma se perdi il tuo nome è peggio che esser morto. Dovete sapere che erano altri tempi, quelli.
Due giorni dopo, a reparto riunito in marcia, Picchetto, in coda come al solito, fece il colpo del mona (si proprio quella) : sparò ed uccise un camoscio mentre balzava velocissimo dentro il greto di un torrente. Fu un tiro superbo, bersaglio mobilissimo tiratore in piedi, carabina 30/30. Fagiano gli dette gli arresti di rigore, fece sparire la caora morta sotto il telo di un mulo e allontanò Picchetto immediatamente dal Reparto per tre giorni mandandolo di collegamento con un Battaglione vicino. Ma il guaio era fatto.
C’erano testimoni alcuni pastorelli: e quella era una riserva privata alpina. La sera, seppe poi Picchetto, un guardiacaccia raggiunse a 20 Km dal fatto la compagnia e, nonostante l’assoluto diniego da parte di tutti e la mancanza del corpo del reato, fece il suo rapporto al proprietario della riserva. La faccenda fu allontanata dalla mente di tutti, Picchetto compreso, sino ad un mese dal fatto, quando in assenza di Fagiano per licenza, in qualità di comandante pro tempore fu chiamato dal Colonnello Comandante del Reggimento per altre questioni di Reparto. Ma questa è un’altra storia, che merita una digressione per via dell’alto personaggio coinvolto.
4. Personaggi 3: il Colonnello
Il Colonnello, il Vecchio, aveva fatto la guerra di Mussolini in Spagna e aveva visto ben altro che caore morte. E perciò, sorridente, si rivolse a Picchetto dicendogli:
… e Fagiano che ci fa, quel bracconiere, in licenza proprio ora che fra dieci giorni ha il processo per il camoscio ?
E così Picchetto, trasecolato e col cuore in tumulto, gli disse che se qualcuno doveva essere denunciato era lui e gli raccontò tutta la storia. Il Vecchio non fece una piega, ascoltò tutto attentamente. Allungò distrattamente la mano a Picchetto e lo congedò. Ci fù poi, qualcuno ne riferì a Picchetto, un andarivieni di ufficiali e una raffica di telefonate.
La faccenda si chiuse dopo poche ore: Picchetto fu riconvocato dal Colonnello, che gli annunciò che il proprietario della riserva aveva rinunciato alla denuncia in cambio di un versamento “simbolico” di una offerta pari a 400.000 lire ad un asilo infantile prossimo alla zona del fattaccio. Un Ufficiale incaricato, il Volpe, noto per la sua diplomazia, stava partendo allora allora per procedere alla donazione. Aveva niente da dire il Signor Tenente ? Picchetto gli disse che andava tutto bene, solo che non disponeva per subito di una somma pari a cinque stipendi.
Il Colonnello gli consegnò una busta già pronta e gli disse di darla al Volpe. Poi guardò Picchetto negli occhi e gli chiese apertamente cosa si sentiva di fare in quel momento, oltre a prendere solenne impegno di restituire il malloppo. Picchetto era emozionatissimo e gli disse ciò che pensava e cioè che era così felice che sarebbe saltato sul tavolo del Signor Colonnello a piedi pari.
E allora che cosa aspetta il Signor Tenente ? Lo faccia ….se ritiene di poterlo fare.
Era una trappola, Picchetto lo sapeva e lo sapeva anche il Colonnello, non si poteva sfidare impunemente l’orgoglio di Picchetto, e poi dovete sapere che quello era un tavolo massiccio di dimensioni superiori al normale ma Picchetto si staccò da terra a piedi pari ed a piedi pari atterrò sul tavolo maestoso, sotto gli occhi spalancati del Vecchio, fece un bel saluto, scese dal tavolo con un balzo ferino sotto gli occhi dell’Aiutante Maggiore accorso per il rumore e, Picchetto, con la busta ancora in mano, ottenne congedo, senza ricevere i rituali arresti di rigore.
Una diecina di giorni dopo, al rientro, Fagiano lo convocò e gli regalò tre piccole penne di gallo cedrone da portarsi dietro la penna nera, nella nappina. “Distintivo dei bracconieri…” disse. Poi disse altre cose e Picchetto ebbe l’ impressione che Fagiano sapesse in anticipo come sarebbe finito il tutto.
- D’altra parte l’omaggio del camoscio al Signor Colonnello ne faceva un complice. Non pare al Signor Tenente?
E così Picchetto divenne più saggio, ritrovò il suo nome segreto nella Greggia, si affezionò a Fagiano, tirò la cinghia per sette mesi e fù lasciato libero fin da subito di riprendere i turni di ufficiale di picchetto, compresi quelli saltati in ragione dell’esenzione avuta come facente funzione di comandante di compagnia.
Ed ecco perché Fagiano lo convocò per la misteriosa storia di Valgallino e della Greggia. Ma ora devo introdurre un nuovo personaggio, essenziale per la comprensione degli avvenimenti, e quindi devo fare una digressione.
5. Personaggi 4: Valgallino
La Val Gallina è una stretta valle nel mezzo delle nostre Alpi. Il mistero che la pervade non ha nulla di magico e tenebroso a parte il nome, la cui origine si perde e si ritrova forse in fondo alla pentola di qualche ufficiale geologo incaricato di rilevamenti in sito. Era un buon terreno dove far allenare i muli della greggia in vista della preparazione ai campi estivi primaverili ed autunnali, sicuramente non per quelli invernali. I muli hanno molto bisogno di movimento anche col solo basto (è, in pratica, lo zaino vuoto dei muli) per evitare quelle piaghe da contatto chiamate fiacche che sono la tragedia in agguato capace di dimezzare la capacità di trasporto di una salmeria in pochi giorni. Problema non da poco per un reparto che vive con quello che riesce a portare. Gli alpini non si fiaccano, per il contatto dello zaino, ma anche la loro proverbiale resistenza subisce qualche limitazione oltre i 40 chili e se "mulo fiacca alpino porta".
E così, pacificamente, in lunga fila longobarda, una bella greggia di 40 muli e relativi conducenti, si dilettava in piacevoli andarivieni di allenamento alla marcia nella misteriosa Val Gallina.
Nelle guardie notturne, vicino alla brace accesa, sotto un cielo che più stellato di quello c’è solo quello, finto, della bandiera americana, lo scalpitio e lo sbuffare dei muli e il tintinnare delle catene è l’unico rumore che rompe il silenzio alpino. L’orecchio attento della guardia assorbe ogni variante di quella sinfonia notturna.
E così quando in batteria la Vittata, mula di testa, detta Pendolina per la regolarità maestosa del suo passo, dette segno di nervosismo, scalciando a destra il mulo Vittorio, detto Pisellino per le dimensioni mostruose di quella parte del suo corpo, la guardia si mise in allarme.
È necessario si sappia che se 40 muli legati in batteria partono per la tangente avvinti alla catena si possono solo contare i morti, che non è detto siano solo muli. E così il caporale fece l’ispezione con le altre tre guardie, svegliate per l’occasione. Per lo più si trova che è qualche viperella o qualche predatore notturno che si aggira nei dintorni.
Ma quella volta trovarono un cagnolino adulto, di pura razza bastarda, la coda a ricciolo, gambe corte ed arcuate, petto largo, orecchie a vela con la punta di quella sinistra ripiegata.
L’atteggiamento aggressivo e fiero, le lerfie tirate a mostrare una bella dentatura canina sana e un bel ruglio di accompagnamento non potevano ingannare un caporale della greggia che ha l’occhio attento ai particolari di ben altri animali e tanto audace sfrontatezza non gli poteva nascondere l’essenza intima dell’ animale. Disse poi che fu l’occhio a tradire il cane, era come quello di un foresto, un forestiero, solo, spaventato e affamato dalla severità della montagna.
Il caporale di salmeria aveva i gradi rossi sulla manica ed in tasca un tozzo di pane, una mela, una carota ed uno zuccherino, il cane accettò il pane e la mela e così facendo chiese di essere adottato nella Greggia e ciò avvenne a voto unanime e fu chiamato Valgallino, dato che era maschio, e la valle da quel momento ebbe il nome di Valle di Valgallino.
Nessuno si chiese mai da dove venisse e quale fosse la sua storia, una adozione era una cosa seria allora e Dio dà e toglie senza spiegarti mai il perchè e il percome, ma se ti dà qualcosa sà che puoi sopportarne il peso e valorizzare il Suo dono, che và seguito, curato, addestrato, amato affinchè trovi il suo posto nel mondo.
E il mondo di Valgallino divenne la Greggia, ed imparò come ci si comporta coi muli, e ad abbaiare in silenzio, per non spaventarli, fece le sue guardie, imparò a seguire od a precedere la Greggia ed a saltellare da un buco nella neve all’altro nella scia della marcia della salmeria, per non sprofondare e come e quando ci si affaccia da dentro una giacca a vento senza gelarsi il naso. Ebbe anche amori fugaci, inaspettati e tempestosi e gravidi di conseguenze anche con cagnette nobili in località di villeggiatura notissime presso le quali la compagnia passava ad ore impossibili, per non decorare con le pagnotte fumanti di mulo il bel manto di neve spalata davanti le residenze riservate od ai lussuosi alberghi.
6. Valgallino ed il potere, Braccio e Mente, Marcinelle
Valgallino, cane orfano e alpino, sapeva stare al suo posto ma prediligeva saggiamente le posizioni di comando e quindi, quando era libero dalle guardie, seguiva col muso il tacco dello scarpone di Mente o di Braccio, i due caporalmaggiori che governavano la greggia. Mente era valtellinese ed organizzava tutto, Braccio, bresciano, era l’esecutore scrupoloso e intelligente; insieme erano una forza della natura e l’essenza stessa della greggia. Parlavano poco, ma le loro parole, misurate e precise, mai espresse in forma di ordini, non potevano essere intese come Vangelo, poiché Esso trasmette debole speranza di riabilitazione e perdono, erano semplicemente le Tavole della Legge, non incisa su roccia ma parlata.
Mosè, se mi permettete la digressione, disponeva di un potere temporale maggiore ma di un carisma inferiore presso gli Ebrei, almeno sino a quando la vicinanza a Dio lo rese raggiante.
Quando una allusione a Mente, da parte di un conducente chiacchierone, come sposo e futuro padre raggiunse Pennastorta al Tenente venne quasi un coccolone. Perché Pennastorta era un fanatico nazista per la legalità democratica, che in lui trovava un paladino intransigente. In passato infatti aveva fatto congedare Alpini, colpevoli di avere dentature non conformi al minimo previsto dal regolamento sanitario militare e non attentamente valutate dalle commissioni di leva. E ora apprendeva che la perla nera della greggia era sposo e futuro padre, essendogli invece noto essere nullatenente, orfano e senza legami. La sentenza era inequivocabile: congedo immediato. Pennastorta cacciò tutti dalla fureria, girò la penna in avanti e convocò Mente ripromettendosi un chiarimento.
Il segnale della penna storta era effettivamente chiarissimo e Mente, convocato, venne con Valgallino a ruota, e strusciando le suole a terra, rese noto al Signor Tenente che lui non era sposato e che, di comune accordo, lui e la sua amatissima non lo sarebbero stati mai, se non col solo rito religioso, non valido ai fini civili per i Patti Lateranensi, e ciò al fine di non perdere il cospicuo assegno di vedovanza spettantele sino a nuove nozze, per decesso in miniera ed all’estero (a Marcinelle) del precedente marito.
Assegno in valuta pregiata, se comprendete.
La vita di montagna era dura non solo nella naja alpina, una donna non poteva stare sola, sprecata nella sua giovinezza e vigore ancor se vedova; l’erba doveva essere raccolta, le patate seminate, la legna tagliata, gli animali accuditi, la casa acconciata. Un caporale degli Alpini, si diceva, "era buono per il Re, e quindi lo era anche per la Regina", una garanzia sociale di buon funzionamento, insomma. E se questo valeva in regime monarchico, valeva anche in regime repubblicano: la montagna non risente di simili alchimie politiche.
La nappina di Pennastorta tornò quasi da sola alla giusta inclinazione e direzione. La legalità era stata rispettata e tutto poteva scorrere come al solito: Mente poteva rilassarsi, “ 30 muli e autonomia per due giorni, adunata alle 05:30 di domani”, la trasmissione di ordini è un fatto usuale, il motivo della convocazione non poteva essere che quello, apparenza e sostanza erano rispettate, i fatti privati riguardano solo i privati…e poi i muli stavano ingrassando.
Valgallino mostrò i denti all’ Ufficiale, e, fatto miracoloso, senza rugliare, raddrizzò l’orecchio storto, che, vedi caso, era proprio il sinistro, come la penna alpina, e si girò per non perdere il contatto del tacco di Mente, ed entrambi sparirono al di là della porta.
Mente era davvero una mente: dovete infatti sapere che quelli erano anni in cui, prima della frequentazione universitaria, molti studenti erano convinti che bastasse un bacio per compromettere la verginità di una fanciulla di buona famiglia, figurarsi se conoscevano simili alchimie tecnico legali internazionali.
Questi antefatti non mi esentano dall’introdurre due nuovi personaggi essenziali per la soluzione del mistero: il tenente veterinario reggimentale, detto Brusca ed il medico reggimentale, detto Madonia.
7. Personaggi 6 e 7: Brusca e Madonia
Madonia e Brusca erano entrambi laureati in medicina, il primo curava gli esseri umani, parlanti, il secondo gli animali, muti. Chiamati al servizio della Patria come Sottotenenti vi si dedicavano al meglio delle loro conoscenze, non necessariamente solo tecniche.
Brusca, piemontese, Madonia siciliano.
È tradizione riportata falsamente, (absit injuria verbo), che molti guai dell’ Italia militare sarebbero stati evitati se il Re unificatore, nel discorso di fondazione del nuovo Regio Esercito unificato, non avesse detto “ nasce un nuovo esercito, nel quale si sposano l’intelligenza piemontese con la tradizionale efficienza meridionale”, invertendo inavvertitamente fra loro (lapsus linguae ?), i termini geografici, come pure gli era stato scritto correttamente nel testo originale.
Brusca e Madonia rispecchiavano le doti migliori delle loro origini.
Introverso, efficiente, tradizionalista Brusca amava la sua professione profondamente ed al punto che, per il bene di molti animali, quando il sapere ufficialmente acquisito non gli risultava del tutto adeguato alle necessità di diagnosi e cura non esitava a ricorrere alle cure alternative apprese in giovane età direttamente sul campo dal vecchio genitore, veterinario praticante nelle Langhe. Se ciò includeva l’uso del pendolino, impacchi di erbe, infusi e simili alchimie poco importava, erano i risultati che ricercava. E li otteneva, anche in grazia della vera virtù di un medico: la mescolanza di una attenta e sensibile osservazione pratica di migliaia di singole esperienze e di una misteriosa introspezione extra sensoriale.
I muli non parlano a noi comuni mortali, ma con Brusca parevano confidarsi, anche se portavano nei loro muti e prolissi discorsi di richieste di aiuto una tal massa di informazioni superflue e irrilevanti e dispersive proprie di un animale non proprio noto per la sua intelligenza. Brusca li ascoltava, scremava, approfondiva, sintetizzava, calmava le loro paure e i loro dolori. Trasmetteva inconsciamente sicurezza. Il suo amore per il mestiere che si era scelto per vocazione lo portava, al termine delle visite ai muli al campo, a ricercare altri animali, vacche polli o maiali che fossero, nelle malghe di montagna facendosi un nome, e qualche modesto guadagno, fra i contadini di montagna o fra i mandriani ai pascoli estivi, lontani dalla civiltà.
Madonia, siciliano, era neolaureato, dottrinario, aggiornato, intelligente ed ambizioso, dubitava sempre saggiamente della adeguatezza della sua diagnosi, per arrivare alla quale nulla lasciava di intentato. Mal gli si adattava aver ottenuto la prima sede in un reparto alpino, odiava il freddo, le marce, il mancato riconoscimento pubblico ed immediato di una laurea guadagnata con serietà di studi e con grande sacrificio economico dei suoi genitori, non era un medico di emergenza in un posto nel quale l’emergenza era un fatto normale, anche nelle situazioni più tranquille.
Non era colpa sua se era finito fra i montanari alpini: era semplicentemente vittima di una vecchia tradizione che vuole i nati sulle Madonie come destinati agli alpini. Le Madonie, si sa, sono montagne siciliane, poco importa che Madonia vi fosse solo nato e che la gran parte della sua vita si fosse svolta a Palermo. Questa antica tradizione merita un sia pur breve e lacunoso approfondimento, per comprendere il quale vi propinerò il Capitolo seguente. Una nuova digressione dunque; ma noi non abbiamo fretta: col tempo e con la paglia maturano le nespole, un passo avanti all’ altro ci porteranno sulla cima. Vi racconto, indegnamente, di un mondo che non esiste più e che pure fa parte della nostra storia. E il popolo che non digerisce la propria storia è destinato a ripeterne gli errori: parola di Mussolini. Se amate le citazioni non riportatela a terzi, non era in questi termini letterari esatti, ma il succo era questo. Quella originale la potete leggere a Genova, incisa nel marmo, sul frontone di un edificio a 150 metri della Questura, sulla via che conduce, in salita, al porto. Se non l’hanno cancellata recentemente, naturalmente. Non impareremo mai.
8. I distretti alpini, Battaglioni, nappine, penne e naja
L’idea venne al Capitano Perrochetti nel 1872. Ufficiale di Stato Maggiore, genialmente si accorse dell’evidenza, e cioè di quanto fossero lunghi ed aspri i confini Nord d’Italia e di quanto fosse conveniente avere reparti formati da valligiani dislocati in loco per agevolare ed assicurare in tempi rapidi la difesa del suolo patrio. Vi risparmio la storia dell’ evoluzione del progetto e le sue vicissitudini, in termini temporali vi bastino i seguenti dati: dalle prime quindici compagnie si passa nel 1882 ai sei reggimenti, venti battaglioni e settantadue compagnie. Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata molta e di storia questi montanari alpini ne hanno scritta molta e non tutta sulle patrie montagne, in Turchia, in Africa, al polo, in Russia, nei Balcani. Non è mio scopo illustrare il loro eroismo ed i loro Caduti, le loro imprese sono scritte in ben altra maniera e cioè col sangue, col sacrificio e col senso dell’onore e del dovere: su un monumento ai loro Caduti è riportata la frase “non sono perché furono quando la speranza si alimentava col sacrificio”. Non è retorica, è Storia.
Ma per questa mia piccola testimonianza irriverente è più adatta un' altra frase, molto più prosaica e diffusissima che recita :
“..e Dio fece l’Alpino e lo collocò sulle montagne e gli disse “rangiati, rospo” e l’Alpino scosse la testa e rispose: "naja", e naja fù.
Sarà volgare e anche un poco stupida ma questa frase esprime sinteticamente il senso della ineluttabilità del destino, della pochezza delle virtù umane, della inadeguatezza dei mezzi, della aleatoria possibilità di organizzazione nell’ambiente dell’alpe e della necessità di supplire ad ogni ostacolo con la ostinata, testarda determinazione di chi non si arrende mai neppure davanti all’evidenza…e della ineludibile esistenza del servizio militare (la naja, appunto).
E sin dall’inizio il senso di provvisorietà stabile lo si pote’ rilevare nella estrema mobilità ed autonomia di questi reparti che si scindevano, si raggruppavano, si moltiplicavano, cambiavano dipendenze, organico, sedi, impiego, tattiche. E venne l’epoca in cui fu necessario che i riservisti venissero impiegati nei compiti di presidio del territorio e furono i battaglioni “Valle”; che vi fossero Reparti in addestramento e furono i Battaglioni “Città” e che vi fossero reparti di punta, i battaglioni “Monte” distinti dai diversi colori delle “nappine” verde, rosso, bianco. Ma questo fù ancora una volta transitorio, si mescolarono ancora e battaglioni Valle si trovarono sul Don come il “Val Chiese” a fianco del “Monte Cervino” e col “Pieve di Teco”.
Arrivarono gli artiglieri da montagna, i reparti trasmissioni, i genieri, i supporti logistici. E sempre quella costante, ineluttabile, necessità di arrangiarsi per assicurare l’esecuzione del compito sempre più arduo e sempre da perseguire con mezzi inadeguati a cui si provvide con la tenace ostinazione, col sacrificio, con l’intelligenza, il buon senso e con la adattabilità alle situazioni più impensate. Gente di montagna, dura nel fisico, pura di cuore, generosa, spensierata e pensierosa, attiva nel fare.
Il reclutamento regionale, dati i compiti di difesa alpina, era necessario e congeniale. Vi furono Reparti formati da valligiani di una sola valle, legati fra loro da un vincolo così forte di identità orgogliosa, che li condusse a sacrifici spaventosi in difesa dei “pais”, i loro vicini di casa, e vi furono Battaglioni che in conseguenza di questo amore-dovere furono quasi sterminati, con i loro Ufficiali, naturalmente. E valli intere si trovarono così private di una generazione di giovani per fatti di guerra. Valga per tutti l’esempio del Battaglione Dronero, in memoria del quale sino a quando ne ebbe facoltà impositiva, il Comune di Dronero non faceva pagare tasse ai tre o quattro Ufficiali che prestavano servizio nella compagnia alpina stanziata nel territorio comunale. Si dovette quindi ricorrere ad estendere il reclutamento alpino anche a distretti tradizionalmente di montagna, pur non strettamente alpina, come gli abruzzesi del Battaglione L’Aquila, e come gli alpini siciliani, nati nelle Madonie, o come i liguri, per la verità questi già fra i primi originari distretti di montagna.
Cappello e penna sono troppo noti per essere menzionati: la penna nera (di aquila, corvo e persino condor) era riservata agli alpini delle compagnie sino al grado di Capitano, l’Ufficiale Superiore, dal grado di Maggiore in su l’ha avuta bianca, di oca, come quelle da scrivano, quasi a distinguere da lontano la sua differenza, non necessariamente un segno di considerazione quindi..
La nappina è il supporto della penna, ciò che la unisce al cappello alpino. Anche la nappina dell’ Ufficiale era diversa, di metallo anzichè di stoffa. Qualche giovane incosciente Ufficiale subalterno, come Picchetto appunto, in epoca repubblicana, ne portava una con la croce di Savoia, bordata da tre ovali di torciglioni, anziché quella con righe verticali detta a "mutanda" propria della Repubblica: solo molto tempo dopo apprese, con sorpresa, che essa proveniva dal copricapo di gala di un Colonnello di Cavalleria del Regio Esercito, destinata quindi a sorreggere originariamente un lungo pennacchio bianco.
Essa era il dono di un “vecio” al suo “bocia” e portata con onore in guerra e Picchetto non l’avrebbe cambiata mai più, d’altro canto, ad onor del vero, nessun superiore che contasse davvero qualcosa glielo avrebbe mai chiesto. La tradizione è tradizione per qualcosa, non vi pare?
9. Gli antefatti 2: il campo
Il “campo”, nel detto alpino, non è legato alle bucoliche attività agresti. Nelle sue varie forme (estivo, invernale, autunnale) è un periodo di addestramento per lo più destinato alla marcia, ma anche ai “tiri” ed alle “manovre”. Una sua costante consiste in marce dette di trasferimento (una trentina d’estate) fra una amena località alpina ed un’altra, su sentieri, piste, tracce e cenge, rocce, ghiacciai e simili amenità con l’ esclusione di strade asfaltate e tollerando al più qualche strada bianca; un’altra costante è che viene effettuato per Reparti dell’ ordine di una Compagnia ed un’altra è che il vostro destino è vincolato solo dalla buona sorte e dalla abilità del Capitano comandante. Dalla sua abilità e competenza è deciso il percorso, le vette da raggiungere, le località, le soste, il rancio inteso come quantità e qualità… ma per farla breve, lui è il vostro tutto. Naturalmente non è solo, lui ha voi e voi non siete soli, avete lui ed i vostri compagni-camerati-pais-veci-bocia, come più vi aggrada chiamarli.
Naturalmente il Capitano è preparato a questo da una lunga “gavetta” da subalterno “firmaiolo” (e cioè di carriera) ed aveva, all’ epoca di questa storia, effettivamente molta esperienza diretta. In più anche nella sede stanziale tutto l’addestramento è volto proprio a questo impiego, normale per un Reparto alpino. I mezzi per assicurare la vita e la permanenza del Reparto al campo erano gli automezzi (due o tre: una “campagnola” con rimorchio, sorta di Jeep italiana, un autocarro leggero con una cucina rotabile trainata e un autocarro medio spesso con un rimorchio da un quarto di tons), una quarantina di muli, per una Compagnia mortai Reggimentale (portano le armi pesanti, la loro proffende, e qualcuno porta anche materiali essenziali).
L’alpino si porta solo: le stoviglie (gavetta, gavettino borraccia e posate), l’arma in dotazione con relativa baionetta, “l’attrezzo leggero” (una sorta di vanghetta da campo), le radio portatili per chi previste, corde, picchetti e paletti per la tenda, un telo tenda, un sacco a pelo, una o più razioni viveri di scorta ed il necessario per pulirsi, lavare, cucire, tagliare, scavare, battere chiodi, avvitare, accendere fuochi, lucido per gli scarponi (con una stringa dentro diventa una lucerna formidabile). Anche la carta igienica, naturalmente, e la giacca a vento, cappotto, berretti, scarpe e calze, mutande e mutandoni maglioni camicie e magliette di ricambio. Il tutto ? Sui 30 chili nello zaino, il resto è addosso o appeso al corpo. Diciamo un totale di trentotto chili. E se qualcuno “tira l’ala” (non ce la fa momentaneamente a reggere la marcia ) si divide il tutto fra i membri della sua squadra, naturalmente. L’Ufficiale “di coda” in genere ha due portatori più forti degli altri e, qualche volta, anche uno o due muli già stracarichi per il corredo dei portatori d’armi collettive (le mitragliatrici) e delle radio più pesanti, dove coricare l’infelice a “pancia sotto”, perché più alto della testa dei muli c’è solo carico morto. Vi sembra troppo ? Qualche volta, dopo 13 ore di marcia, i più giocherelloni fra loro (per lo più contrabbandieri spalloni) facevano gara a chi arrivava prima ad un albero posto almeno cento metri più in alto dell’ accampamento. Quanti chilometri si fanno in queste condizioni ?
In montagna non ci sono chilometri ma dislivelli e le marce si misurano in ore.
La cucina in genere precede il Reparto transitando per i fondi valle sino al nuovo sito destinato all’accampamento e, quando può, si ferma persino in un punto prestabilito a circa metà marcia per fornire un pasto caldo. Altrimenti vi distribuisce un pasto freddo al seguito sin dal mattino, se non si può raggiungere in giornata il nuovo accampamento il Reparto dorme all’ addiaccio e, quando si può, porta seco una cucina someggiabile per il funzionamento della quale ci si avvale di legna raccolta nel sottobosco e acqua di torrente. In questo caso sale, pasta, carne, fagioli, verdure e frutta vengono caricati sul solito mulo che diventa l’animale più vezzeggiato del reparto. All’epoca dei fatti oggetto di questo racconto ogni santo o normale giorno della settimana di ineluttabile vi erano solo le razioni di fagioli, pane e pasta. Circa 420 grammi alla settimana di fagioli pro capite, uno sproposito di pasta e di pane. Un abile Capitano, aiutato da un abile furiere, trasformava il sovrabbondante in burro, latte, uova e persino salami, pezzi di maiale, trote, dolci...e vino e grappa, naturalmente.
Questa è però un’altra storia che, investendo aspetti di rilevanza giuridica e penale, merita un apposito approfondimento.
Se questa parte di sunto spicciolo Vi lascia qualche dubbio su problemi non specificatamente menzionati fate come facevano questi splendidi soldati, e cioè risolveteveli da soli come meglio potete (“rangiatevi rospi”): se avete buon senso, fantasia, intelligenza e muscoli potrete anche trovare soluzioni originali. Tenete presente che il telefonino non esisteva e che le radio (che pure esistevano) avevano una portata “ottica” e limitata talchè era d’uso sentire l’addetto a quell’ inutile (e pesante) aggeggio mormorare nel microfono la fatidica frase, “vi vedo, vi vedo…ma non vi sento”. Sembrano secoli e invece è realtà neppure tanto lontana. In compenso chi arrivava sulle cime in quei tempi erano solo loro, le aquile di montagna con gli scarponi e gli specialisti dell’alpe.
10. Gli antefatti 3: il problema sanitario
“Basta la salute ed un paio di scarpe buone e puoi girare il mondo” recita una canzonetta; per le scarpe in genere non c’è problema, se non quello delle scarpe veramente nuove; per la salute bastavano i tradizionali venti anni (a cui si giungeva per selezione naturale), la selezione della visita di leva nei distretti alpini e le vaccinazioni relative; una vita attiva e ben regolata faceva il resto. Però, qualche volta, qualcosa poteva capitarvi ed allora …voilà! Ecco a voi il supporto della sanità militare e cioè : sapone, dentifricio, rasoio a lamette, pacchetto di medicazione, enocordial, barella da campo, cassetta medica, aiutante di sanità, Dottore Militare (per le marce più ardite e per i tiri). Medicine a iosa… pomate antigelo, bende, stecche, alcool, garze, ; per i casi più gravi, ma solo in sede, la sala anticeltica, per rimediare ai mali d’amori mercenari e infetti, i letti con coperte, e persino una ambulanza. Il resto è leggenda: supposte antitutto e pillole antituttoilresto, pennelli e tintura allo iodio. I Medici Militari avevano la loro borsetta magica, dove, saggiamente, portavano il resto.
11. Difficili rapporti
Il problema del medico è che deve essere pronto a tutto e che per esserlo non deve essere stanco. I giovani Ufficiali Medici sono generosi ed entusiasti, oltrechè robusti e vispi (specialmente nelle malghe isolate reperiscono facilmente giovani rubizze e disponibili, in virtù della loro sapienza e delle loro belle maniere). E marciano volentieri, scossi da pesi e giocosi. Ma qualcuno no. E il guaio era che quel qualcuno era Madonia, ed al Reparto in marcia capitava spesso proprio lui. La prima volta fù un disastro: gli venne assegnato su sua richiesta, un mulo mite e si fece tutta la marcia in sella, come un carico morto, pallido e persino terreo poichè disconosceva sia la rudezza anelastica del dorso dei muli sia la loro abitudine a marciar spediti sull’orlo esterno del sentiero con bella vista degli strapiombi sottostanti e della propria gamba sopra ad essi sospesa. Per di più portò sfiga, fù uno dei rari casi in cui ad un alpino uscì di posto la spalla, subito ricomposta dall’ aiutante di sanità, al quale, peraltro Madonia ordinò di portargli il malcapitato per un controllo, in barella, naturalmente. Lo scompiglio massimo venne causato dalla necessità di far scendere il Signor Tenente dal mulo, non essendogli possibile la visita domiciliare dalla sella. La decisione di far marciare la presunta vittima senza alcun peso lo rese impopolare ad un intero plotone. Alla prima sosta Fagiano richiamò in testa Pennastorta e gli chiese di spiegare in separata sede a Madonia alcune opportunità che la catena gerarchica poteva offrire in aiuto agli inesperti Ufficiali.
Pennastorta, latore, si prese una di quelle risposte che, partendo da una puntigliosa descrizione dei diritti-doveri di un Dottore, esposta in aulico linguaggio medico-legale, si accompagnava con la altera sufficienza formale che un laureato dedica al popolo illetterato e bietolone.
Picchetto era firmaiolo e Tenente e l’atteggiamento strafottente del Signor Sottotenente dall’alto del suo mulo gli fece girare la penna in avanti. Ma aveva imparato qualcosa, e chiese al Signor Dottore di spiegargli i motivi del perché del trattamento riservato al soldato. Ne ricevette una dotta spiegazione scientifica di cui ricevette solo una frase “..possibile grave alterazione della motilità dell’arto..” Trasse il taccuino di tasca e vi scrisse rapidamente qualcosa: "grave" non è per scherzo. Chiamò l’aiutante di sanità vicino a sé e ordinò al conducente di aiutare il Signor Sottotenente a scendere dal mulo e di farvi salire, in sella, l’infortunato grave. Il Dottore, rosso come un pomodoro, gli chiese un ordine scritto, e Pennastorta gli consegnò il biglietto già compilato e gli chiese, non appena fù disceso da mulo, di controfirmarne la seconda copia.
Riprese il suo posto in coda e aspettò il suo pesce all’amo gettato.
Due ore dopo, nella penultima sosta della marcia, fù affiancato dal Dottore, i suoi begli scarponi privati e nuovi, gli confidò il Laureato, sedendosi su un masso gli stavano piagando i piedi. Pennastorta era di animo nobile, ad una richiesta anche se velata di aiuto non sapeva dire di no.
Chiamò l’aiutante di sanità, fece togliere scarponi e calze, bucare due belle sfioppole, disinfettare il tutto e sostituire le calze con quelle di scorta di un portatore e le sue scarpette ginniche, gli dette una bustina di enocordial, lo prese sottobraccio e lo rimise in marcia con la tradizionale frase “..manca poco per arrivare, dai, andiamo a mangiare ..”.
Il tempo era buono, il sole scaldava le spalle e tutto stava andando per il suo verso. La sera, vicino ai fuochi, la naja fece un gran parlare, la greggia era ammutolita. Il signor Dottore al termine della marcia venne inviato con l’unica campagnola alla sede del Battaglione, con l'infortunato grave, che tornò la sera stessa, dimesso dal Colonnello Medico e pagò, si seppe poi, un mare di bustine di enocordial (il cognac della naja) al suo plotone ed alla greggia e ci mise due settimane a togliersi di torno la fama di fighetta. Prima di rispedire alla sede il Laureato il capitano Fagiano gli fece tenere, prima della cena e davanti alla cucina rotabile fumante, una dotta lezione alla truppa sul come si possano ridurre le lussazioni più comuni. La lezione ebbe successo al punto che l’aiutante di sanità fù impegnato per più giorni nella traduzione dialettale e pratica dei saggi ammaestramenti teorici ricevuti.
12. Antefatti 4: gli aiutanti di sanità, l'assistenza spirituale, il Placido Don
Ben più di due parole meriterebbero gli “aiutanti di sanità”, soldati semplici, scelti per il fisico robusto ed una naturale propensione alla generosità e solidarietà fattiva con opere assistenziali verso chi soffre, spesso affiancata a conoscenza tecnica medica di base: all’epoca molti erano scelti fra seminaristi soggetti alla leva, studenti di medicina fuori corso, infermieri o cittadini dell'alpe benedetti con doni speciali del Padreterno.
Pennastorta ne conobbe uno, che rivide molti anni dopo, utilizzato semiabusivamente in un centro traumatologico di emergenza per le sue doti naturali e misteriose di saper ridurre ed anche ricomporre le fratture degli arti con rude immediatezza mediante l’uso accorto ed istintivo di movimenti delle sue massicce mani sugli infortunati.
Dio dà e Dio toglie, quando dona qualcosa vuole che sia utilizzata per il bene degli altri, quando toglie forse vuole insegnare qualcosa proprio a noi, ed è anche questo gesto d’amore, verso noi stessi, forse dico, perché i Suoi disegni sono inconoscibili ai mortali.
Il che mi induce ad affrontare in due parole l’aspetto religioso o assistenza spirituale nei Reparti. La pratica di base fondamentale era appresa nelle famiglie di provenienza, profondamente radicata e sentita. Il Cappellano faceva il resto, col suo altare da campo e con la sua sensibilità personale, con la sua disponibilità generosa e costante. Non aspettatevi figure ascetiche e dedite a studi particolari. Montanari essi stessi, badavano all’essenziale, che è dare speranza e fiducia e quel minimo di assistenza possibile nei casi più disperati che comunque pervenivano a loro conoscenza. Il primo Cappellano del Reggimento di Pennastorta era una leggenda. Seminarista ed aiutante di sanità nella grande guerra, raccoglieva feriti fra i reticolati del fronte a 50 metri dalla trincea nemica. I cecchini nemici gli uccisero due portatori di barella in due sortite successive, entrambi colpiti alle spalle ed a pochi metri dalla trincea amica. Il Placido Don uscì ancora, ma con moschetto e bombe a mano questa volta, e tornò con una decina di prigionieri crucchi catturati dopo un assalto personale. Insignito di medaglia d’oro al valor militare, finita la guerra si fece Sacerdote e divenne Cappellano Miltare. Egli aveva una sua teoria personale sulle bestemmie che accompagnavano a commento le piccole disavventure quotidiane degli alpini: asseriva infatti che esse non potevano pervenire al Creatore né ai Santi invocati per via di uno stuolo di Angeli scopini posti all’altezza più alta della più alta montagna. Questi Angeli erano incaricati di scoparle via. La prima volta che conobbe Picchetto, in cortile gli si portò di fronte, ne ricevette il saluto alla medaglia e lo guardò negli occhi: poi gli disse “Porco Dio”.
Picchetto non bestemmiava quasi mai e così strabuzzò gli occhi; ma rispettoso del parere di un membro tanto eminente e competente ribattè: “Ehi, Clero, se và bene per te, va bene anche per me, porco Dio, porco Dio, porco Dio..”
Il Placido Don sorrise e trasse la mano con cassettina che nascondeva dietro il corpo piccolo e massiccio, si infilò una mano in tasca, trasse mille lire e le infilò nella cassettina dicendo: “Una bestemmia ho detto..ora chiedo perdono una volta..” e allungò la cassetta a Picchetto.
Picchetto chiese perdono tre volte, in contanti, naturalmente…i grigi occhi chiari del prete ridevano di una gioia profonda.. e Picchetto, che non era mai stato abbracciato da un uomo, neppure da suo padre, si sentì stringere al petto da quel vecchio giovane dall’odore di tabacco che gli sussurrava in un orecchio: “..impara, figliolo, impara..” Molti anni dopo Picchetto si sposò nella Cappelletta che il Placido Don aveva fatto erigere ed arredare con i soldi del perdono, raccolti con le bestemmie di un intero reggimento alpino.
12. Le scuderie, il Maniscalco e la soluzione scontata.
Naturalmente avrete capito che le misteriose file di conducenti ai locali delle scuderie, (dove c'erano le scuderie appunto e cioè le camerate dei muli, i magazzini del fieno, dell'avena, dei basti e dei finimenti, il filare fisso, l'abbeveratoio, il deposito dei ferri, la mascalcia, il travaglio, la forgia con i suoi ferri ed il carbone e l'infermeria equina) avevano uno scopo ben preciso ed avrete capito anche quale. Ma non potete abbandonarmi proprio ora che siamo entrati nel cuore della greggia, regno del Maniscalco (il calzolaio dei muli) e del Veterinario.
Il Maniscalco era un Maresciallo piccolo e brutto che aveva ferrato muli e cavalli da venticinque anni, aveva una stanzetta ricavata in un locale delle scuderie, mangiava e dormiva in Caserma. Pennastorta non l'aveva mai visto in divisa completa, il grembiule di cuoio bruciacchiato, il cuoio capelluto deformato da una cicatrice da calcio di mulo, camicia calzoni e scarponi, batteva il ferro con una determinazione ed una abilità che gli erano valsi il nome segreto di Mestro. Da quelle manacce martoriate uscivano fiori, riccioli e foglie, boccioli e rami per rastrelliere d'armi, ed il suo sorriso sincero emergente da una barba grigio ferro era illuminato da due occhi che così chiari e buoni Dio solo sa dare agli innocenti. Si raccontava che il mulo che lo ferì così malignamente fece l'errore di sghignazzargli in faccia e che Mestro lo ricambiasse atterrandolo con un pugno in fronte così forte che da quel giorno il mulo venisse chiamato "il Balengo" perchè tanto giusto di testa non lo fù più. Mestro voleva bene a Pennastorta, nel quale vedeva il figlio che non ebbe mai. D'altra parte ne era ricambiato con una silenziosa presenza del Tenente che, negli interminabili turni di Ufficiale di Picchetto, trovava sempre il tempo di sedersi a fianco della forgia in meravigliata ammirazione.
Del Veterinario sappiamo già qualcosa; ma il suo dominio era una grande sala dove aveva fatto costruire una sorta di enorme materasso duro e riempito di crine che gli serviva da letto per muli. Un grandissimo tavolo costeggiava una parete ed un armadio robusto, rinforzato in ferro e lucchettato severamente conteneva i suoi attrezzi, la borsa medica, un mare di medicine, un microscopio, lampade a petrolio, molti libri, una infinità di vasetti e vasi di unguenti, pomate, sciroppi, tisane, veleni, disinfettanti, infiniti composti e pastrugli di erbe essiccate, un fornelletto a spirito, una serie di seghe, trapani a mano, punte, una scure, bisturi e coltelli affilatissimi, pompe e pompette, tubi e tubicini. Un grande disegno anatomico di un mulo sezionato ed un pendolino completava il tutto.
Pennastorta vi giunse come i Greci, portando in dono una cassa di legno vuota di bombe da mortaio leggero, una cassa vuota di munizioni ordinarie, una bottiglia di grappa alla radice di genziana, due bicchieri ed un sorriso a trentadue denti.
Era una vigliaccata, e lo sapeva: le cassette da mortaio erano il sogno segreto di ogni Ufficiale, sono delle dimensioni giuste, someggiabili o autoportabili, e tenevano ben conservati e asciutti abiti e riserve di mutande, calzini, lettere e quant'altro potesse servire per un campo, analogamente quelle per munizioni ordinarie, più rustiche queste, ma impilabili sul fianco ne facevano dei perfetti cofani scrittoi sempre pronti con l'aggiunta di una catenella. Aveva osservato, il vile, lo sguardo di cupidigia di Brusca. Ma la vera carognata era la grappa alla genziana, poco nota ai piemontesi, ma diffusa fra bergamaschi e bresciani, vero toccasana per "stompare i tubi" dopo una lauta mangiata.
Dopo due bicchieri di medicina Brusca divenne inquieto, il brusio fuori della porta stava aumentando, e Valgallino, di fuori cominciava a rugliare: guardò Pennastorta e gli disse che doveva tornare al suo dovere di Dottore. Pennastorta se ne andò a rendere noto a Fagiano il suo rapporto ufficiale. Un veterinario visitava gli Alpini che non si fidavano del dottore degli uomini. Messa così era roba da inchieste, denunce, roba da giornali insomma.
Ma Pennastorta a Fagiano disse che cercavano sostegno psicologico e consigli di vita da paesano a paesano e per farsi una grappa gratis e tutto finì così con l'occhietto di Fagiano che brillava di gioia e che già pregustava il piacere di arrivare anche lui, in visita di cortesia al primo psicologo campale militare, con cinque o sei bottiglie di grappa in omaggio, naturalmente.
Non è finita la storia di Pennastorta; ma forse sono cose di cui a nessuno importa più qualcosa.. e forse non vale la pena di continuare.
Così finisco qui il mio dire …a forza di parlare viene sete.