L’inno alla fame
Personaggi: Giorgio e Aldo
Chi scrive ha avuto il privilegio di assistere alla sofferta elaborazione dell’“Inno all’appetito”, poesia in rima che Giorgio compose in accademia, pubblicata sul numero unico redatto in occasione del Mac P 100. Eravamo affiancati allo stesso banchetto. Provo a ricordare/richiamare (chiedendo venia per le omissioni e le imprecisioni) “le condizioni al contorno” che ispirarono l’opera.
Sveglia alle sei, sistemazione del posto letto, abluzioni rapidissime nei “locali igienici” e poi di corsa a “studio”, nell’angusto locale al “Palazzo” (primo anno), successivamente nello “Studio grande”, alla Spianata. Caldarazzo, Tamburello, Zacco, Villafiorita, alcuni nomi dei severissimi “custodi” che ci controllavano senza tregua.
Silenzio assoluto! Dovevamo studiare, solo studiare.
Ma noi facevamo altro: si parlava, si consultavano riviste, si leggevano e scrivevano lettere (Giorgio, abilissimo, ne scriveva almeno tre al giorno, mimetizzando i foglietti bianchi tra montagne di sinossi) e poi si conversava sussurrando: dei nostri sogni, del nostro futuro, delle nostre pregresse avventure sentimentali, spesso inventate, frutto della nostra immaginazione.
Avevamo “appetito”. Di corsa a mensa per la colazione: panino standard, burro, marmellata, latte, caffè. Ma non bastava mai. La doppia razione era consentita solo a seguito di prescrizione dell’ ufficiale medico, il terribile Zaccaria. Poi le lezioni, le attività ginniche e addestrative e finalmente arrivava l’ora del pranzo. Ci recavamo a mensa con un punta d’invidia per i soliti corpulenti “privilegiati” ai quali spettava doppio panino, doppia razione di verdura e frutta.
Cautela per tutti nel sorbire vino e bevande: qualcuno aveva insinuato che venivano “corrette” con una leggera dose di bromuro per attenuare le nostre “voglie” giovanili.
Piacevole era la variazione che capitava a turno (mediamente ogni quaranta giorni) per il “servizio” a mensa. L’allievo incaricato, con sveglia anticipata alle quattro del mattino, si recava nei magazzini sotterranei annessi alle cucine con il compito di controllare il peso del caffé e dello zucchero. Dopo la complessa operazione, il maresciallo addetto invitava (per straordinaria ed informale concessione) il “signor allievo” a consumare una succulenta “bistecca argentina”.
E nel pomeriggio le operazioni riprendevano: ancora studio, lezioni, addestramento e cena, fino alla pausa di rilassamento al bar, talvolta glissando le angherie dei “divinissimi” anziani (primo anno) o ignorando la solidarietà vessatoria nei confronti dei “luridissimi” cappelloni (secondo anno). Qualche ora davanti alla TV per ammirare gli astri nascenti preferiti: la splendida Mina o il buffo Celentano, principe del rock.
E poi, stanchissimi, finalmente a letto dove di nuovo ci assaliva l’“appetito”: di riposo, di sonno, di sogni. Il suono del “silenzio” arrivava come un segnale liberatorio.
Giorgio descrisse mirabilmente quelle sensazioni, quei momenti, con versi scherzosi, irridenti, scandendo la nostra giornata standard dalla sveglia al riposo notturno. Riflettendo, dopo cinquanta anni, forse tutti noi ci accorgiamo di avere ancora appetito, “fame”: di apparire, di conoscere, di litigare, di comunicare ma anche di goderci con soddisfazione e tranquillità la nostra solitudine, la famiglia, gli amici.
È una cosa buona, ne potremo parlare, sorridendo, incontrandoci.
È il momento dei ricordi.
Grazie Giorgio, mi è gradito trascrivere l’ultima quartina dell’ “Inno all’appetito”: