Segue lettera di Gigi Conti,
trovata da Giorgio de Benedictis stamattina, 26 maggio 2004, sul suo cuscino.
Cari compagni di Corso,
ho saputo delle vostre "pagine personali", alcune delle quali veramente belle.
Ne ho letto qualcuna e allora mi sono detto che anch'io avrei potuto raccontarvi qualcosa di più, mettendoci dentro tutta la mia nostalgia.
Non saprete mai quanta.
Ho deciso, perciò, di scrivervi di nuovo, buttando giù tanti ricordi, proprio quelli del bel tempo antico.
E mi sembrerà di essere ancora con voi.
Vedete, dove mi trovo ora ho tanto tempo a disposizione. Al mattino gioco con le nuvole, e sapeste quante capriole! Più di quelle che facevo da bambino, perché non c'è più il mio papà a dirmi di smettere.
Al pomeriggio incontro gli amici: Cesare Costantini, Piergiovanni Bussolini, Nicola D'Andria, Marcello Bartolini, Mario Malausa, Armando Verso, Antonio Spinella e tanti, tanti altri, con i quali torno con la mente a quelle interminabili ore in aula, all'orologio con catena di Goldoni, alla generosità severa e buona di Pignedoli, al tanto simpatico e paziente "bandolero stanco". A volte, loro non sono d'accordo e non vogliono saperne di rispiegarmi quel che, a suo tempo, mi dava l'orticaria solo a sentirla nominare: quella "proiettività di seconda specie, col duale, l'inverso del duale e il duale dell'inverso", che mi mandava fuori di testa. Io penso che non la ricordino più neppure loro, ma fanno così per non darmelo a vedere.
Stasera qui fa un po' freddo. Sarà colpa del cielo che oggi, per il vento, è stato più azzurro del solito. Sapete, qui non ci danno pastrani o mantelline, e dobbiamo cavarcela da soli, correndo a perdifiato fra le nuvole per riscaldarci un po'. Ed è bello, sapete, perché sono morbide più dell'ovatta o come il seno della mia mamma quando mi addormentavo, mentre lei mi cullava e mi stringeva a sé. Ed io sentivo che mi voleva bene.
Non dovete pensare, però, che sia una brutta vita, la nostra. Tutt'altro.
A volte, poiché - per numero - facciamo quasi due plotoni, riproviamo a fare qualche movimento di addestramento formale, senza fucili s'intende, ma tanto per tenerci in linea e alla pari con quelli che a Modena continuano a farlo per davvero. Ma il tempo, anche così, non passa mai: e allora ho pensato di scrivere, e quindi ora cercherò di dire qualcosa di simile a ciò che avete detto voi.
Entrai in Accademia dopo la Nunziatella. Ero abituato alla disciplina, alla tromba, al silenzio e non mi costava tanto continuare a farlo.
Avevo tanti amici: alcuni lo erano più di altri (come Giorgio de Benedictis), altri un po' meno. Ma che c'entra… due anni sarebbero passati presto… e poi… e poi, io volevo entrare in Cavalleria.
Mi piaceva pensarlo e ce la feci. Che bei tempi, ragazzi! Ed io, non faccio per dire, ma ero un bel ragazzo (dicevano che somigliavo a Tony Curtis. Non era vero: ero meglio!), sano, allegro e pieno di vita.
E lo sono ancora, anche se nessuno di voi se ne può accorgere.
Dovreste vedermi fare le capriole: otto di seguito sono un bel numero. Provate voi!
Ricordo che, alla Sala Convegno, con Giorgio, ci mettevamo al pianoforte a cantare (non sapete che era Giorgio il migliore amico mio?). Erano i tempi dei Platters, di Paul Anka, di Pat Boone, di Neil Sedaka.
Sognavamo di inseguire il mondo e di prendercelo.
Ricordo le giornate uggiose, quella pioggerellina antipatica che si intravvedeva dalle finestre, il sonno sano che ci coglieva durante le lezioni sulle "coniche", mentre fuori esplodevano quegli anni felici che non potemmo godere come avremmo voluto.
Mi sedevo con Giorgio all'ultimo banco, nella illusoria speranza di non essere "beccato" dal Vaona di turno e ci facevamo coraggio a vicenda. Ho ricordato quest'ultimo fatto sul "Come Eravamo", mi pare. Tornate, per favore, a rivederlo. Io, nel partire per sempre, ho dimenticato i due libri a casa. Se li avessi qui, potrei essere più preciso, ma sapete com'é… a volte, nella fretta di partire, metti nella valigia le cose più inutili e lasci a casa quelle essenziali.
Quanto aiuto ci siamo dati a vicenda! Quanto era bello parlare delle nostre ragazze, vantarne il colore degli occhi, la curva del labbro, il profumo sottile… e tante altre cose, alle quali ora non posso pensare più.
E la sera, nel cortile d'onore, quante stelle!
E lontani, nelle stalle della Montecuccoli, il nitrito di Daina (la cavalla di Giorgio) e quello del mio morello. Oh, Dio! Come si chiamava… Mah! Non lo ricordo… proprio non me lo ricordo… ho dimenticato tante cose, fratelli miei! Ho dimenticato pure come si bacia, anche perché non ne ho più l'occasione, ma so che Colei che baciavo, mi sente ancora accanto e si consola al ricordo del mio respiro.
E poi ci furono gli esami. E fui Sottotenente di Cavalleria. Poi il Reparto, le prime delusioni, le prime fatiche, i primi successi, i sogni di un futuro bello, importante ed io che sarei diventato chissà chi e mi sarei specchiato negli occhi di chi aveva creduto in me e continuava a crederci.
E poi le promozioni, i raduni, i vostri volti che il tempo andava cambiando nei tratti, e la quiete che andava subentrando nel mio e nel vostro vivere, e quella strana serenità che si faceva strada piano, piano… quasi per prepararmi a qualcosa…
E passò il tempo. Ne passò tanto. E quel qualcosa avvenne… Qualcosa che mi impose il silenzio. A me, che avevo ancora tante cose da dire. A me, che avevo ancora voglia di cantare, come allora, al pianoforte della Sala Convegno, con Giorgio che suonava, smadonnando per l'interrogatorio dell'indomani, non sapendo quanto stessi smadonnando anch'io.
Qualcosa mi costrinse al silenzio. E, silenziosamente, QUALCUNO mi spalancò pian piano le porte, perché potessi più agevolmente andar via. E andai via. Me ne andai, silenziosamente anch'io. A volte, c'è qualcosa che ti fa fretta e non vorresti.
Ma credevate che vi avessi dimenticato? No, ragazzi! Qui non facciamo altro che parlare di voi, di tutto ciò che ancora vi unisce, di tutto ciò che ancora ci unisce a voi. Non ci credete?
E allora sappiate che al Barberini, il 9 marzo, c'eravamo. Non potevate vederci, ma ci sentiste. Eravamo in quel leggero vento che correva tra le palme e le siepi del giardino e che avvertiste sul volto. Io e gli altri ci eravamo messi a soffiare a pieni polmoni. Potevamo farlo, perché qui, dove siamo ora, possiamo fare tutto. Solo una cosa ci è impedito di fare, l'unica cosa che non possiamo fare: tornare tra voi… e quanto ci piacerebbe… quanto ci piacerebbe…
Sto quasi per concludere. Ma prima, una raccomandazione: venite a trovarci il più tardi possibile. Non che noi non si abbia voglia di rivedervi, ci mancherebbe altro… solo che il viaggio è lungo, è tanto lungo e ancora non hanno costruito la strada del ritorno. Anche se veniste a farci visita, dovreste rimanere. E che direste a chi vi aspetta? Ancora oggi, che cosa posso dire a chi mi aspetta ancora?
Stanotte andrò in sogno da Giorgio e gli lascerò questa mia "pagina" sul cuscino. In sogno gli dirò di spedirvela con quella strana cosa che chiamate "computer" e che qui non abbiamo. Ma so che a Giorgio farà piacere. Mi voleva bene e gli volevo tanto bene. L'avrei spedita io per posta, ma qui, dove mi trovo, non vendono francobolli e, in aggiunta, non abbiamo un indirizzo. Ci piacerebbe, ci piacerebbe davvero che ci scriveste ogni tanto, ma come si fa?
A volte, di sera, quando tutto si illumina, abbiamo la fortuna di avere un palco d'eccezione e ci divertiamo a vedere la bravura di Dio, con le sue aurore boreali. È il suo regalo di ogni sera. Lo fa per consolarci. Lo fa anche con le albe e i tramonti più belli.
Eppure, che cosa non darei per tornare a vedere il colore di due occhi che si fanno sempre più lontani. Darei tutte le aurore e i tramonti del mondo: anche la mia voce, se tornassi ad averla.
Pensate a me, qualche volta.
Noi viviamo qui, tutti insieme, in una casa che ha il pavimento bianco di nuvole e le pareti azzurre di cielo. Si trova in una strada il cui nome ancora non ho letto bene. Chi è venuto qui prima di me, mi ha detto che si chiama "Via dell'Eternità", ma non ne sono sicuro. Mi informerò meglio.
Il numero civico? Quello lo so e ve lo posso dire.
È una stella.
L'altro giorno, proprio l'altro giorno, il buon Dio, riandando con la mente a quanto rinunciammo e a quanti sacrifici affrontammo per guadagnarci la prima stelletta, e volendo onorare tutte le nostre antiche fatiche, ha tratto dal Suo firmamento la stella più luminosa e l'ha messa sulla nostra porta, sì che ogni sera, rientrando, noi si possa ricordare quegli anni, quelle fatiche, i nostri amici, la nostra giovinezza lontana. Brillerà sulla nostra porta per l'eternità.
Perciò, ragazzi, se qualche sera, anche distrattamente, alzerete gli occhi al cielo, cercate la stella più luminosa.
Quella è la nostra casa, la nostra casa di cielo, illuminata per sempre da una stella.
Addio, ragazzi, fratelli miei…