Un ricordo puro e semplice, per quanto nitido, scolpito, indelebile? O anche un po' di nostalgia, magari per i vent'anni di allora o per l'innata capacità che hanno i giovani di diventare commilitoni e amici quasi contemporaneamente? Soprattutto, se non esclusivamente, in un ambiente e in un'atmosfera come le "nostre", quelle che abbiamo vissuto sessant'anni fa e nelle quali c'era sempre spazio per questi sentimenti, pur in giornate di duro ed intenso lavoro?
Senza dimenticare lo stupore, che si rinnova di giorno in giorno, per la straordinaria, spontanea capacità di ricordare le facce, le caratteristiche, i nomi (questi ultimi non tutti, ma non si può pretendere troppo!). Però basta un riferimento, una fotografia a mettere in moto la valvola della memoria di quelli che erano del "tuo" plotone, della “tua” compagnia o comunque erano del "tuo" Corso. La capacità di esultare ogni qual volta apprendevi che "uno" del 14° aveva assunto un incarico prestigioso, insomma "aveva fatto carriera"; o di gioire sapendo che altri stanno godendosi una argentata, se non proprio dorata, quiescenza.
Per non parlare di uno struggimento del tutto particolare, di un commosso groppo alla gola che ti prende inevitabilmente quando vieni a conoscenza che qualcuno di "noi" non c'è più, non ci sarà al Sessantennale, dovrai per forza di cose solo ricordarlo così come era. Ma non puoi sperare di stringerlo in un abbraccio, di iniziare il solito, immancabile ma toccante ritornello del ... " ti ricordi? ...".
Già al ventennale, al trentennale, al quarantennale, al cinquantennale e in ogni nostro raduno rendemmo gli onori alla memoria di tanti, troppi commilitoni; e ad ogni raduno, altri nomi si aggiungevano a questa penosa lista. Che sarà ora diventata ancora più consistente, purtroppo, e inevitabilmente. Per ognuno di loro, al momento della lettura dei nomi, ci sarà sicuramente da parte nostra un sincero e commosso "peccato che tu non sia qui con noi". un po' poco, d'accordo, ma anche il massimo che si può fare. Purtroppo la vita contempla anche la morte, dilazionata nel tempo, ma inesorabile, per tutti.
Fin da queste prime righe mi rendo conto che per me, giornalista professionista aduso a trascorrere giornate, mesi, anni picchiettando i tasti di una macchina da scrivere e poi quelli della tastiera del computer, questo sarà uno dei pezzi peggiori, forse dei più banali; ma sicuramente ha un pregio unico, quello della spontaneità. Un articolo campione di non professionalità, e in questo caso, un vanto: perché non ci tengo proprio ad apparire distaccato, appunto professionale, scrivendo di una realtà che ho vissuto in prima persona, che ho vivissima nel cuore pur non portando più le stellette da ben cinquantacinque anni a questa parte.
E perché a qualcuno non venga in mente che quanto cerco di esprimere sia frutto soltanto di un amore senile, specifico che ho abbandonato l'Esercito per un motivo molto semplice, quasi banale ancorché molto serio, anche se forse più comprensibile allora di quanto possa esserlo adesso: un incidente stradale mi fece perdere due anni della Scuola di Applicazione di Torino, dopo averne frequentato il primo. E ritrovarsi sugli stessi banchi occupati dagli "ultracappelloni" del 16°, oltretutto dopo aver fatto vita di caserma, e con grandi soddisfazioni, mi apparve davvero insopporta¬bile, roba da alzarsi al mattino con lo stesso rossore sul volto con il quale ero andato a dormire. Giusto o sbagliato che fosse, la considerai una "diminutio" troppo vistosa, per quanto involontaria, una doppia "retrocessione" che non mi sentivo in grado di sopportare.
E ne trassi le conseguenze. Procurando un grande dolore a mio padre e a mia madre e suscitando le ire, in primis, del Col. Giacobbe, che ebbi modo di incontrare, oltretutto affettuosamente, in qualità di giornalista, nelle sue vesti di "Generalone".
È sempre antipatico affliggere i lettori, e tanto più gli amici, con questioni personali, ma mi è sembrato ugualmente una puntualizzazione doverosa e forse utile. Se non altro per cercare di spiegare come anche dal "di fuori" si possa attendere con una certa trepidazione la ricorrenza del Sessantennale dell'ingresso nella Grande Famiglia dell'Accademia Militare di Modena. Anzi, se mi è concesso, con una trepidazione forse maggiore rispetto a chi ha trascorso la propria vita con le stellette e quindi ha sempre avuto dimestichezza, familiarità con certi ambienti, con cerimonie, ricorrenze, cambi di comandi e di Unità, feste d'Arma e via dicendo.
Ma anche se le vite di alcuni di noi sono state indirizzate verso altre professioni, verso esperienze molto diverse tra loro, una matrice comune c'è stata ed è rimasta. Ed è appunto quella dell'Accademia Militare, scuola di vita prima ancora che di studi universitari e di armi, di tattiche e di strategie, scrigno di intenso impegno negli studi e di formazione militare di eccellenza. Una scuola che non si dimentica, che non si può dimenticare, che lascia il segno, quasi un marchio di orgoglio, di fierezza, di intima soddisfazione nel poter dire sempre a se stessi e agli "altri", a tutti, al mondo intero, "c'ero anch'io", anche se le stellette sono rimaste solo nel cuore.
Al Sessantennale (ma ci potremmo definire sessantennalisti, pur se suona male? Radunista mi riporta a chi partecipa ad esempio ad un incontro di auto d'epoca: d'accordo, d'epoca siamo pure noi, ma con un animo ed un cuore ben definiti!), Al Sessantennale, dicevo, andrò in macchina, partendo da Martellago, in provincia di Venezia, dove una decina di anni fa mi sono trasferito da Gorizia, la mia città natale che ho sempre nel cuore e dove ero ritornato a vivere dopo oltre trent'anni di emigrazione professionale; città dalla quale, oltretutto, partii in treno agli inizi dell'autunno 1957 per recarmi a Modena, naturalmente via Bologna (e relativo cambio di treno – per Modena Suzzara, Mantova si cambia - gracchiava l’altoparlante della stazione) anche questo divenuto in due anni una specie di rito. Certo, ora eviterò l'ango¬scia del ritardo del treno e di arrivare fuori tempo massimo.
Se ciò dovesse succedere ancora, qualora viaggiassi in treno, l'Ufficiale di servizio crederà alla giustificazione, peraltro quasi sempre sacrosanta, del ritardo del treno, della perduta coincidenza a Bologna, queste ferrovie che non riescono quasi mai ad assicu¬rare un servizio pari alle aspettative e alle esigenze del viaggiatore, quindi conseguente rientro fuori tempo massimo in Accademia ... “si, lo so Signor Tenente che avrei potuto organizzarmi con un treno precedente, ma come si fa con un permesso di trentasei ore, il viaggio, i famigliari, gli amici, la ragazza, beh sì, anche quella, ma insomma non è stato per questo - che prurito al naso che si sta allungando a dismisura - la prossima volta, se ci sarà, farò proprio cosi - altro allungamento pinocchiesco del naso - le ho solo detto Signor Tenente le ragioni del ritardo, non pretendo di essere nel giusto beh, visto che me lo chiede lei, ma solo per questo motivo, le rispondo che sincera¬mente non mi sembra di meritare una punizione, perché ho fatto il possibile, il ritardo in fondo non è dipeso da me.”
Alle volte andava bene, alle volte ... un po’ meno: se ti trovavi di fronte l'Ezechiele, si, proprio lui, il Lupo, una specie di sinistro latrato metteva fine ad ogni illusione. Non restava che andare in camerata, depositare il proprio bagaglio, munirsi della coperta regolamentare e salire un altro po’ di gradini, con un'ulteriore illusione destinata per altro a infrangersi al primo ... contatto: che cioè per qualche miracolo nella cella si fosse potuto trovare un tavolaccio meno duro del solito sul quale riposare, si fa per dire, la notte. E poi le angosce, ma come e quanto inciderà sulla valutazione globale questo soggiorno in cella di punizione?
E le riflessioni, i dubbi da tenere strettamente per sé, non si sa mai, ma è proprio giu¬sto che l'insegnamento della disciplina militare, anzi un doppio insegnamento, perché l'Ufficiale avrebbe dovuto a sua volta essere in grado di insegnarla ad altri, è proprio giusto che questo insegnamento debba essere quasi sempre accompagnato da un auto¬ritarismo alle volte addirittura arrogante?
D'accordo, si trattava di "inquadrare" soprattutto mentalmente chi era stato proiettato improvvisamente in un mondo formativo di questo tipo (stiamo parlando, è forse utile ricordarlo, di sessant’anni fa, a 12 anni dalla fine della Seconda Guerra mondiale ed trovandoci in piena Guerra fredda) provenendo da un ambiente studentesco che, nonostante i tempi e gli studi, era pur sempre a suo modo frivolo, almeno un po’ disin¬cantato, se vogliamo "leggero" e in ogni caso ben lontano da un certo tipo di discipli¬na. Nel giro di poche ore avevamo dovuto cambiare completamente mentalità, modi di vivere, di agire, di comportarsi. Il buon giorno in Accademia, attraverso le righe scolpite in una lapide all’ingresso, era stato peraltro più che eloquente “divorare le lacrime in silenzio – donare sangue e vita – questa è la nostra legge – e in questa legge Dio”. Un leggero brividino nel sangue, certo, poi un’iscrizione diventata una specie di punto di riferimento ideale, ma alcuni anni dopo rimossa, nell’ambito della modernizzazione e dell’……ammorbimento.
Ma non eravamo anche noi teste pensanti, non ci poteva essere un rigore un po’ più umano se non proprio tenero? Ed era proprio impossibile imparare a vivere con le stellette senza essere presi da sacro terrore ogni volta che si vedeva non dico un Ufficiale ma anche "soltanto" uno "Scelto"?
Ogni incontro era un po' come quando ti fermano per strada mente stai viaggiando in auto la polizia stradale o i carabinieri: se "vogliono", un qualcosa che non va te la trovano, una multa, per piccola che sia, ci sta sempre. Un po’ come con lo "Scelto": se gli girava male, un qualcosa che non fosse a posto te la trovava sempre e comunque, con logiche conseguenze. Era giusto tutto questo? Ma non sarebbero stati proprio questi gli Ufficiali che un domani avrebbero raggiunto i vertici dell'Esercito? E al contempo era giusto che io mi potessi chiedere se era … giusto, o dovevo soltanto subire e pazientare, in attesa che venisse la prima sospirata stelletta da Sottotenente? E poi pazientare ancora in attesa che terminasse la Scuola di Applicazione? E poi e poi… Quando ci saremo noi non potrà, non dovrà essere cosi. Le cose, almeno certe cose, devono cambiare ...
No, basta, questa sera non ci penso, non penso a niente, penso solo che mi farò una bella dormita, tanto domani è un altro giorno. Di sofferenza? Anche, ma pure di soddisfazioni, almeno si spera. In quel momento sembrava giunto il momento del giusto riposo per il quasi guerriero. Ma era la sera buona per uno degli spiacevoli contrattempi (è chiaramente un eufemismo definirli "rompitempi"!) al quale potevi andare incontro. Non facevi in tempo ad abbassare le palpebre che venivi quasi contemporaneamente travolto dal "fatto" e dalla sua spiegazione: il "cubo" che giungeva puntualmente in faccia, magari con i calzini non propriamente profumati, e una neppure tanto dolce voce notturna che ti "raccomandava" in toni non proprio amichevoli "allievo, rifaccia il cubo". Si innescava l'automatismo di alzarsi dal letto, rifare appunto il "cubo", prestare cioè attenzione perché tutto, camicia, maglioncino, mutande, calzini, guanti, combaciasse per¬fettamente, cravatte e bustina facessero la loro bella figura in posizione adeguata; poi, passato il pericolo, via in bagno a fumare una sigaretta. Con la speranza che almeno la "fumata" fosse indenne da repressioni.
C'erano naturalmente altri automatismi: come per esempio quello del caro Perich, buono come il pane appena sfornato, ma con un sonno talmente pesante e ristoratore da richiedere un bel po’ di tempo prima di lasciare il posto alla sveglia: allarme, allarme, su Perich, svegliati perché altrimenti arrivi in ritardo. Scattava nella sua mente l'apposita chiave di lettura e, a occhi ancora chiusi, cominciava ad infilarsi gli scarponi, incurante di tutto ciò che gli accadeva intorno. Finché, non avvertendo alcuna agitazione intorno a lui, socchiudeva gli occhi, notando che tutti noi eravamo tranquilli a letto, fingendo di dormire della grossa, e si rimetteva a sua volta a letto, convinto di aver sognato sentendo qualcuno di noi che gli aveva lanciato l'allarme dell' ... allarme.
Eppure verrà anche la prima libera uscita, un vero e proprio avvenimento, bisogna rigare dritto per non lasciarsela scappare, ma sarà vero che ti controllano che tutto, ma proprio tutto, debba essere come prescritto dalla “libretta”? D'accordo per l'uniforme, ci mancherebbe, deve essere perfetta, e d'accordo per tutti gli "accessori", non ci sono discussioni, non ci sono problemi per i reggicalze (naturalmente al polpaccio, sotto al ginocchio, non fraintendiamo!), anzi li trovo utili e comodi; ma le mutande no, di quelle non se ne parla proprio, le esamino attentamente, le "apro", faccio la prova da manuale: si, è proprio vero, stanno "in piedi" da sole, che spettacolo. Che bello, che ridere, ma solo a guardarle; quanto ad indossarle, me ne guardo bene, e non sono naturalmente il solo. La decisione è a senso unico: costi quel che costi, preferisco rinunciare alla libera uscita piuttosto che rischiare rossori, cosa dico? vere e proprie abrasioni in parti alle quali oltretutto ho sempre tenuto moltissimo.
No, è fatta, la “ricognizione” non è arrivata fino lì, si esce anche indossando gli slip. E non è ancora sopita la soddisfazione per la conquistata libera uscita che già si pone il primo problema... attento, saluta... ma no, secondo me è un supergallonato portiere di albergo... ma che ti importa meglio non rischiare, tanto non costa niente se non un sorriso di simpatia, più che di commiserazione, da parte del portiere, effettivamente tale, promosso per un attimo sul campo al rango di Ammiraglio.
E poi... e poi il tutto e il niente. Una vera e propria valanga di ricordi, spesso anche struggenti, soprattutto se coinvolgenti chi non c'è più, un'affollatissima pellicola di immagini, atteggiamenti, situazioni più o meno buffe, scherzi fatti e subiti, una serie ininterrotta di volti, un'interminabile agenda di nomi, colleghi, amici, superiori, "anziani", "cappelloni", le lezioni, lo studio, gli esami, Fichera agli esami due palline bianche e una nera, la ginnastica, l'attività sportiva, la palestra-inferno, le punizioni. E i (rari) momenti di relax, comunque non sempre completo e appagante. Un scambio di battute, scherzi, ricordi con alcuni amici più amici degli altri amici, oppure no, questa sera voglio raggiungere il bar, è allettante il pensiero di starsene mezz’ora senza pensare ai soliti problemi; ci arrivi, al bar, dopo essere passato attraverso una specie un po’ sgangherata di forche caudine degli “anziani”, qualcuno più svelto di mani e di bustina che scherzoso. Ma al bar ci sei arrivato; quando te ne esci ti senti più leggero …. un momento, non distrarti e tanto meno illuderti. Incroci il Tenente di ispezione: “Allievo!” “Comandi!” “Lei non ha ancora imparato come si esegue il saluto militare!”. Momento di panico. Ho a disposizione una frazione di secondo per decidere cosa rispondere, signor sì o signor no? Ci provo, signor sì, bene, è andata. “Il saluto deve essere eseguito alla perfezione, è la base della vita e della disciplina militare.” “Signor sì”. “Lei deve provarci e riprovarci fino a quando non raggiungerà una forma accettabile.” “Gnor sì”. “Stia punito”. “Gnor sì”. Fermo, se ti scappa di dirgli grazie penserà (magari a ragione) che lo stai prendendo in giro, e sarà cella. “Si accomodi, allievo”. “Gnor sì”.
Basta, non c'è spazio che tenga per entrare nei dettagli, altro che romanzo ci vorrebbe. Un romanzo, ma meglio sarebbe definirlo un trattato di irripetibile vita vissuta, al quale daranno sicuramente un contributo più brillante e più incisivo del mio gli altri "sessantennalisti", e non solo loro.
Ma, per quanto piacevoli possano essere, non si vive di soli ricordi. Se effettivamente l'Accademia Militare è stata - e lo è stata - scuola di vita in tutti i sensi, deve avere anche... insegnato qualcosa da proiettare nel futuro, deve aver fornito gli elementi per fare qualche valutazione che tragga origine dalle esperienze fatte da ciascuno di noi. Accennavo, quando mi sono soffermato sulle riflessioni più o meno notturne da Allievo, alla convinzione che avrebbe dovuto esserci qualche cambiamento.
E le cose sono effettivamente cambiate, e anche di molto. Possiamo forse ignorare che negli ultimi cinquant’anni il mondo è stato rivoluzionato - e non è un modo di dire – dall’avvento dell’informatica e di tutto ciò che ha comportato in tutti i settori della nostra vita, nessuno escluso? Per quanto poi ci riguarda da molto vicino, possiamo forse sorvolare su almeno due cambiamenti epocali, come l’abolizione della “naja” e l’apertura delle Forze Armate alle donne? Forse non proprio tutti i cambiamenti – conseguenti e non – hanno seguito con logica l'evolversi del mondo, della vita in generale e naturalmente degli uomini, evitando il rischio, come è avvenuto per certi aspetti, di incrinare o comunque di appan¬nare alcuni punti fermi della vita militare e di quello che rappresenta. Ma non sono certo questi l'occasione e il momento di fare analisi, di cercare di entrare in una pro¬blematica molto vasta, complessa e spesso e volentieri anche infida.
Ecco perché bisogna vigilare, con molta attenzione, ma anche con altrettanta onestà. Ci sono ancora alcuni sprechi da eliminare; fondi a disposizione, purtroppo sempre più limitati, che dovrebbero forse essere indirizzati e utilizzati in maniera più oculata e mirata; un’immagine delle Forze Armate da realizzare sempre più bella, simpatica, coinvolgente, anche se bisogna riconoscere che l’ingresso delle donne ha reso l’ambiente più accattivante e più umano; un'atten¬zione verso il mondo esterno che deve essere non solo di facciata, ma sentita e applicata con convinzione. Senza tuttavia che ciò comporti, come è già avvenuto e avviene, rinunce di vario genere e peso, come ad esempio, l’appannamento dell’orgoglio di indossare l’uniforme.
Il mio messaggio – appello – auspicio, diciamo pure la mia tiritera, finisce necessariamente a questo punto. Ma dal momento che questo mio ricordo ha avuto svolgimento tra il frivolo - scherzoso e il serioso, anche la conclusione dovrebbe tenere conto di questa doppia fonte di ispirazione. Invece no, propendo decisamente per il serio, ma lo faccio con estremo piacere; affermo così la mia certezza che a metà ottobre vivremo giornate sicuramente memorabili; e altrettanto seriamente, in questo caso con la necessaria dose di speranza e ottimismo, sono più che convinto che a conclusione di questo "Sessantennale" potremo tranquillamente metterci a pensare di ritrovarci di nuovo, almeno ogni anno (del resto finora l’abbiamo fatto spesso e volentieri, magari a gruppi più ristretti) per rivederci ancora, coloro che lo potranno fare, e rinsaldare questi vincoli di fratellanza che chi hanno coinvolti in anni ormai lontani e che tuttora sono pregnanti nei nostri affetti più cari e sinceri. Intanto comunque il prossimo appuntamento “ufficiale”, a sua volta molto significativo, è per il 2019, nella speranza che ci possano essere tutti coloro che daranno vita al Sessantennale, magari con l’aggiunta di qualcuno che è stato impossibilitato per varie ragioni a essere presente a Modena: fra due anni festeggeremo a Torino il Sessantennale …. bis, quello cioè della Stelletta.
Ma vi rendete conto? Amicizie nate spontaneamente, in pratica casualmente, che durano da sessant’anni, anche se magari, in certi casi, con contatti sporadici, e che dureranno ancora a lungo, direi per sempre. È quasi un fenomeno, decisamente affascinante: si tratta delle ineguagliabili “amicizie della naja”, peraltro da noi vissuta quali Allievi del 14° Corso dell’Accademia Militare di Modena e poi decisamente …...allungata!