Era un ragazzo piccolo. magro, dai grandi occhi scuri. Era venuto in Accademia da un paesino delle Marche e voleva fare l'Ufficiale.
Suonava il violino. Aveva lo sguardo trasognato, come di chi guarda lontano e vede cose che altri non possono vedete. Non ne ricordo il nome, ma lo vedo rifarsi il "cubo", all'angolo della camerata, triste di una tristezza infinita. Non capiva nulla di "proiettività di prima specie" e non era il solo. Smontava l'arma con delicatezza, come se l'accarezzasse. E sognava.
Andò via ai primi di gennaio. al termine del tirocinio, quasi che la primavera incipiente lo avesse chiamato altrove. Non lo rivedemmo mai più. A te, oggi, amico mio di un tempo lontano, dico di continuare a sognare, se ci sei ancora. Tu non sai che cosa la vita abbia portato a noi: credimi, poche cose. A te portò la capacità di sognare.
Continua a farlo e continua a suonare, perchè so che lo facevi anche durante le ore più squallide e inutili. Inseguivi le note con i pensieri che vagavano per altri cieli. La voce del Tenente non era la musica di Offenbach, l'otturatore non suonava in "la maggiore" e tu avevi l'animo gentile.
Si sta facendo tardi, amico mio di allora.
E anche se non ti ricordi più di me, io, Giorgio de BENEDICTIS, ti rinnovo il mio affetto di fratello di sempre.
Ti volevo bene. Suonavi il violino e sognavi.